Etologia filosofica, R. Marchesini

Etologia filosofica, R. Marchesini

Si tratta di una lettura che consiglio fortemente perchè piena di stimoli interessanti su cui riflettere, anche se un po’ ostica come tutti gli scritti di Marchesini, soprattutto per chi non mastica questi temi.

Cercherò di rielaborare a mio modo quelli che per me sono gli spunti più importanti ed utili ai nostri fini, integrandoli con quella che è la mia visione.

La questione che viene posta dall’etologo è quella della soggettività, e con essa anche quella legata alla coscienza. Delle tradizioni che hanno caratterizzato la lettura degli animali non umani, Marchesini rigetta tanto quella cartesiana quanto quella behaviorista: la prima vede l’animale come una semplice macchina, la seconda come un sistema leggibile attraverso un algoritmo stimolo-risposta perfettamente lineare e prevedibile. Entrambe le correnti peccano di un riduzionismo che non riesce in alcun modo a far emergere la complessità dell’animalità, vista non più come qualcosa che si oppone all’umanità, la misura negativa che valorizza ed innalza per distanza l’uomo: quest’ultimo non è altro dall’animale, ha piuttosto un’animalità declinata a proprio modo, così come ogni altra specie.

La domanda più interessante che si pone Marchesini è legata alla coscienza, ma non nel banale chiedersi se sia opportuno o meno parlarne quando si tratta di animale non umano, sempre considerandola in termini di soggetto che riflette su sé stesso, piuttosto spostando totalmente la questione: è la coscienza a rendere soggetto?

Pensiamo all’uomo, nella corrente di pensiero riduzionista (ridurre ai minimi termini = il contrario dell’olismo) del determinismo biologico: è l’ipotesi secondo cui solo i fattori biologici, quindi i geni di un organismo, determinano il modo in cui un questo agisce o cambia nel tempo. In questa visione, non è sufficiente aggiungere una coscienza che si limiti ad illuminare quegli automatismi costituiti dal corredo filogenetico, così come questa non può bastare a rendere l’uomo soggetto; la visione meccanicistica non viene in tal modo scardinata, ma permane accanto ad una coscienza che fa luce sui suoi ingranaggi, senza in alcun modo esserne meno schiava. Si tratta di una sorta di consapevolezza, ancora però lontana dalla volontà soggettiva che così non viene riconosciuta.

L’istinto, che si conserva nella selezione naturale, e i comportamenti appresi per condizionamento risultano ancora vincolanti e determinanti per il soggetto in questa visione, soggetto che dunque non guida né ha potere su sé stesso, non sceglie mai e in alcun modo il suo comportamento: il solco del cammino è già tracciato e predeterminato e non prevede deviazioni.

Occorre passare da una concezione dualista della soggettività, ove cioè soggettivo è ciò che si giustappone alla natura dotazionale dell’animale, partendo proprio dalla disponibilità funzionale delle dotazioni ovvero del loro essere strumenti e non automatismi.

L’animalità si esplicita rendendo le dotazioni ricevute dalla filogenesi in coordinate capaci di definire non la traiettoria dell’azione ma il campo di agibilità.

La soggettività non è nel sistema macchina, così come non è fuori: il problema anzi si pone proprio qui, in questa concezione dualistica, mentre il soggetto non è dentro al sistema, non sopra, non è distinto, non è altro. L’individuo non può essere visto sotto questa dualità, altrimenti si rischia di cadere in due polarizzazioni: da un lato l’iper responsabilità del singolo, in grado di autodeterminarsi unicamente con la propria volontà; dall’altro l’esternalizzazione della stessa responsabilità, ovvero il ritenere il campo d’azione limitato dalle condizioni dell’ambiente interno ed esterno, su cui il soggetto non ha davvero alcun potere.

Bisogna spostare il punto di vista della questione, il centro del problema. Il vero punto fondamentale è che la soggettività non coincide con la coscienza, anzi ne è il presupposto. Non è altrettanto vero il contrario, ovvero “non è necessaria la coscienza per essere soggetto e manifestare un comportamento soggettivo”. Anche perché “se la soggettività resta confinata in un pensiero interno, linguisticamente organizzato e pertanto traslabile a un’altra soggettività interna, non è possibile ammettere il non umano a tale dominio”. Questo è il grande limite che pone un muro tra l’essere umano e le altre specie, la barriera da abbattere per ricongiungerci con l’alterità.

La chiave di lettura deve essere di tipo olistico, ed il soggetto per essere tale deve essere visto nella sua complessità, con i suoi propri desideri che lo muovono.

Ammettere una sovranità sulle dotazioni e quindi un utilizzo titolato delle stesse nell’espressione delle funzioni vuol dire considerare le dotazioni degli strumenti che il sistema utilizza e non degli interruttori. Esistere significa pertanto emergere dalle proprie dotazioni