L’etologia equina

Il cavallo fa parte della famiglia degli Equidi (mammiferi perissodattili) attualmente rappresentata dal solo genere Equus, che comprende anche asini e zebre (e muli e bardotti come incroci).

L’inizio dell’addomesticamento del cavallo sembra risalire a circa circa 5 mila anni fa, per opera della civiltà Botai, originaria del Kazakhastan. Veniva allevato come cavallo da soma, per essere montato e per la carne e il latte. È importante ricordare che, al contrario del cane, la selezione del cavallo da parte dell’uomo non ha portato la specie a modificarsi in maniera sostanziale rispetto agli esemplari originari di cinquemila anni fa, dunque non ci sono differenze fondamentali nelle motivazioni specie-specifiche che variano da razza a razza, anzi il cavallo mantiene ancora molte caratteristiche e dunque esigenze etologiche del suo più vicino antenato.

Il cavallo è un animale sociale, vive in un branco con altri conspecifici con cui crea legami strettissimi. Interagisce, cura, si muove, gioca, si confronta con i suoi simili. Ogni cavallo nel branco ha un ruolo, rispetto alle sue competenze, che riconosce e gli viene riconosciuto. Per questo non ha senso parlare di capo branco: i ruoli non sono fissi ma dinamici, e l’accreditamentro che viene riconosciuto ad un membro di un gruppo di cavalli dipende dal contesto; ci sarà il cavallo con più competenze sociali, più bravo a mediare, ma probabilmente sarà diverso da quello che invece guida durante un’escursione in un territorio inesplorato, ed ancora un’altro sarà quello che farà da sentinella quando si sosta in una zona sicura. Il cavallo non si pensa singolo, si pensa branco.
È un animale nomade, si sposta molti km al giorno, esplora, perlustra, trova nuove aree: le distanze percorse dai cavalli dipendono sostanzialmente dal luogo in cui sono presenti le risorse; possono arrivare a percorrere fino ad 80 km in una giornata per trovare ad una fonte d’acqua. Non sono solo le risorse alimentari a determinare gli spostamenti, anzi la prima condizione sta nel loro essere prede, caratteristica che spesso dimentichiamo quando interagiamo con loro; si muovono per allontanarsi dai predatori o per tornare al loro territorio o gruppo sociale. Il cavallo ha spazi e ritmi molto differenti dai nostri, passa gran parte della sua giornata a pascolare (circa 17 ore), il suo stomaco è molto piccolo ed ha poca capacità di dilatazione e produce continuamente succhi gastrici. Ha bisogno di un’alimentazione specifica, di un terreno con determinate caratteristiche per una buona gestione del piede, di un ambiente stimolante ed appagante per le sue motivazioni specie-specifiche. Ha bisogno di un contesto in cui il branco si senta sicuro, così da poter dormire (circa 3 ore al giorno) in vari turni, con altri membri che fanno da sentinella. Si adatta molto bene sia alle temperature calde che a quelle fredde, non teme pioggia o neve. Certo nella sua gestione dobbiamo stare attenti ad alcuni fattori (ad esempio repentine escursioni termiche e vento in presenza di forte umidità, acqua sempre a disposizione ecc.), ma in generale non dobbiamo correre il rischio di antropomorfizzarlo, dimenticando la sua grande capacità di adattamento: non ha bisogno di coperte, di stare in un box asciutto, di essere protetto e separato dalla sua stessa natura, anzi! Ha bisogno di poterla vivere appieno. Per tutti questi motivi la Gestione Naturale è l’unica pensabile per gli equidi: un compromesso che rispetti il più possibile quella che è la natura di questi animali.


Parliamo un momento di emozioni negli animali. Noi per primi lo siamo: mammiferi che condividono con gli animali non umani parte del patrimonio genetico. Le altre specie presentano probabilmente emozioni di tipologia diversa, strutturalmente o solo nelle sfumature, che restano per noi incomprensibili e indefinibili tramite il linguaggio umano, limitato in quanto inevitabilmente antropocentrato. Non si può prescindere da questo, ma essendone consapevoli credo sia possibile fare un discorso attorno al mondo emozionale degli animali non umani ed oltre al puro ragionamento penso che la chiave sia aprirsi all’empatia. Oltre che possibile lo ritengo utile: così come le differenze, è importante sottolineare le affinità con le altre specie, immedesimandoci per quanto possibile nel loro punto di vista; ciò contribuisce al processo antropodecentrante di “deep ethology”, introdotto da Mark Bekoff. La realtà è relativa, siamo portati a misurare l’altro su noi stessi, ed è questo a condurre all’antropomorfismo, ad attribuire cioè caratteristiche e scale di valori prettamente umane ad altri animali: tutto ciò che sentiamo lontano da noi viene posto sulla nostra scala gerarchica in posizione inferiore. Per questo, riconoscere nell’eterospecifico un soggetto, oltre a mero rappresentate di una data specie, ci aiuta a non cadere nell’errore di togliere valore ad un comportamento che altrimenti sentiremmo distante da noi (leggendolo ad esempio solo come mosso dall’istinto), rispetto a qualcosa che percepiamo come affine (e che quindi vediamo come mosso da sentimenti che conosciamo, come nel caso dell’amore). Diviene dunque necessario ragionare sull’espressione comportamentale contestualizzata. Per fare questo non ci si può affidare allo spontaneismo, che spesso viene letto come autenticità: la premessa fondamentale è anzi data da una profonda conoscenza dell’etogramma specie-specifico dell’animale che osserviamo, dallo studio filogenetico ed ontogenetico, così da saper decodificare la comunicazione con i conspecifici e non, quelle che sono le dotazioni e motivazioni di specie che poi si declinano nel particolare di ogni individuo. Questa conoscenza apre la possibilità di creare un ponte tra il nostro lato emozionale e quello degli animali non umani, rispettandone la diversità ma riconoscendo anche una concordanza, che possiamo spiegare solo tramite definizioni umane, ma che riusciamo ad imparare a percepire attraverso l’empatia.

Gattinoni P. PH