Il problema del linguaggio e la parola rispetto

Più delle risposte, è rischioso avere le domande sbagliate. Ma il rischio peggiore tra tutti e non averne affatto.

«Rinominare un bacio tra scimpanzé “contatto bocca a bocca” offusca il significato di un comportamento che le scimmie mettono in atto nelle stesse circostanze degli uomini, ad esempio quando si salutano o si riconciliano dopo una lite. Sarebbe come assegnare alla gravità della Terra un nome diverso rispetto a quella della Luna solo perché riteniamo che la Terra sia speciale»

Frans de Waal

Il cuore del problema è nel linguaggio: non possiamo che utilizzare parole umane per descrivere la realtà, sia che si parli di noi umani, sia che di altri animali. Le parole che usiamo, dunque, in quanto tali, valgono solo per noi? Come potremmo capirci e comunicare altrimenti? È impossibile la pretesa di uscire dalle coordinate umane, e neppure è auspicabile: perchè creare distacco invece che empatia?
Certo è innegabile che il rischio di antropomorfizzazione sia sempre elevato, soprattutto se manca una certa consapevolezza e conoscenza.

Su questo argomento, così come in generale, sono da evitare le estremizzazioni. Certi termini a mio avviso sono più problematici di altri, ma credo che la parte fondamentale sia capire il perchè sia importante parlare di linguaggio: cambiare le parole cambia il pensiero, talvolta. Credo tuttavia non sia una cosa che si possa imporre. Il fine non dev’essere per forza quello di cambiare il linguaggio, ma sicuramente risulta utile analizzarlo, poiché fa emergere il pensiero che vi è dietro, portando a nuove consapevolezze.

Facciamo un esempio attorno ad un termine secondo me problematico, forse sintomo della più estesa tendenza dell’uomo a considerare tutto sotto la sola ottica che possa comprendere: quella umana.
M’incuriosisco sempre nel sentir parlare di rispetto nella relazione uomo-cavallo. Sia chiaro: se le parole ci vengono d’aiuto per avvicinarci ad un concetto, per empatizzare e viverlo internamente, o anche solo per capirci, ben venga anche l’uso improprio o in senso lato. Prendo questo esempio poiché, come già detto, in alcuni casi le parole che usiamo fanno emergere un modo di pensare fuorviante e non desiderato, magari in primo luogo da noi stessi.

Torniamo all’esempio del rispetto, dunque. Possiamo intenderlo in modo semplicistico, scevro da interpretazioni su ciò che sottintende, e farlo coincidere alla pura osservanza di un ordine; disciplina e rispetto: a voler ben vedere, neanche in questo caso le cosa sono così semplici. Spesso però il suo campo d’utilizzo è esplicitamente quello morale (campo d’azione totalmente antropocentrico), poiché viene inteso come riconoscimento di valore e superiorità morale o sociale. Questi due modi d’utilizzo sono legati, il primo sottointende il secondo, e l’uso che ne si fa viene spesso traslato ed adoperato a mio parere impropriamente.

«Il cavallo ti sta prendendo in giro!», «Devi farti rispettare, altrimenti vince lui!»

Queste sono frasi a portata di chiunque si interessi al mondo dell’equitazione, senza dover andare a scomodare argomenti quali addestramento o doma più o meno dolce.
È chiaro come implichino qualcosa di più della mancata esecuzione di un comando, oltre a porre la relazione sotto la triste ottica del “chi vince”: come se l’intento del cavallo fosse quello di mancare di rispetto («…ti sta prendendo in giro») o arrecare un’offesa alla tua persona («…devi farTI rispettare»).
Rispetto: ‘sentimento e atteggiamento di riguardo, di stima e di deferenza, devota e spesso affettuosa, verso una persona’, ‘sentimento che porta a riconoscere i diritti, il decoro, la dignità e la personalità stessa di qualcuno, e quindi ad astenersi da ogni manifestazione che possa offenderli’ (Treccani). Difficile credere di poter applicare questa interpretazione ad un’alterità eterospecifica, che risponde a regole e linguaggi non nostri.

Ho sentito molti istruttori far leva sulla motivazione dell’allievo in questo modo e sicuramente tale metodo ha una gran presa: nella nostra naturale superficialità e selettività, viene facile considerare la connotazione di significato che appartiene alla nostra specie, applicandola a ciò che ci circonda; a smuoversi sono l’orgoglio, la necessità di stima. Ma non possiamo misurare l’obbedienza (l’unica cosa che ci si aspetta talvolta, purtroppo) di un cavallo ad una data richiesta con il metro del rispetto umano, poiché questo probabilmente risponderà invece per necessità, accreditamento, relazione, in accordo con il suo stato fisico, cognitivo ed emotivo del momento. Non bisognerebbe aspettarsi di riscontrare stima in un cavallo che esegue i nostri ordini, soprattutto se sono tali, quanto più una certa convenienza che ci riconosce nel comportarsi in tal modo. Il problema linguistico ci viene in aiuto per portarci a riflettere su quanto siamo consapevoli di entrare in contatto con un’alterità tanto diversa: cambiare le parole cambia il modo di pensare, fa emergere il modo di pensare. Parlare di accreditamento, invece che di rispetto, scardina l’idea alla base del proporre un ordine: la dimensione da ricercare non è più egoistica, ma di condivisione, per avere un cavallo coinvolto che sceglie di darci credito e seguirci.

Non voglio in alcun modo minare all’importanza del concetto di rispetto, al contrario lo ritengo fondamentale nella società umana.
Cosa ben diversa però è pensare di adoperarlo in quella equina senza cambiarne le connotazioni. Se si parla di relazione uomo-cavallo, pensare di farsi rispettare, intendendo così un’applicazione dell’idea umana di rispetto, annulla ogni condivisione con l’equino; si tende ad estendere una visione di relazione tra due individui puramente antropocentrica ad una realtà che invece si propone di non esserlo.

Quando mi avvicino ad un cavallo, che io lo conosca o meno, cerco sempre di abbandonare ogni pregiudizio riguardo alla comunicazione; tento di aprirmi alla scoperta, che mi coglie impreparata, certo, se mi mancano gli strumento di lettura e di interpretazione di una data situazione. Ma non ritengo che questa sia priva di significato, solo perché non sono in grado d’interpretarla. Ancor più evito di riempire i buchi interpretativi attingendo ad un bagaglio di segni, segnali e significati che conosco perchè interiorizzati, ma che son quelli limitati alla mia visione strettamente umana. Riconoscerne altri, diversi e distanti, nell’alterità, significa dargli pari dignità. Altrimenti la relazione uomo-cavallo non può che essere unilaterale, ovviamente a favore del primo elemento del binomio.

Il rispetto inteso come specificato poco prima, è una cosa tanto bella quanto umana, che per come lo vediamo si avvicina sì ad alcuni aspetti che l’equino adotta con i suoi simili (quando si parla di ruoli nel branco, ad esempio), ma con cui non possiamo farlo coincidere del tutto.
In natura vigono leggi diverse, talvolta incomprensibili e irreplicabili, e spesso si tende a sostituire questa difficile verità con una forse più accettabile, che si porta il peso però di una visione sociale e morale che appartiene solo agli uomini, quantomeno nella sua dichiarabilità.

Ultima precisazione: non solo non dovremmo aspettarci rispetto, soprattutto non dovremmo cercarlo (tantomeno pretenderlo), ma ancora di più dovremmo evitare l’associazione mancato risultato – mancato rispetto: rischieremmo di intervenire con comportamenti che a nostro avviso dovrebbero portare ad un certo scopo, ma che nel cavallo si strutturerebbero secondo il suo schema cognitivo, non certo secondo il nostro. Non essere consapevoli di ciò a cui lo stiamo educando (ogni azione o non-azione interviene sull’educazione) comporta un rischio futuro: dover decifrare comportamenti che altro non sono che i risultati di ciò che noi stessi abbiamo – inconsapevolmente – innescato.